da Alessandro Manzoni | regia Luca Micheletti
"Io non son nato con un cuor di leone…
Il mio sistema è di scansar tutti i contrasti e di cedere, in quelli che non posso scansare…"
Così come don Abbondio è il primo personaggio che Manzoni presenta al lettore, così s’è pensato di costruire un percorso teatrale che l’avesse a protagonista d’uno spettacolo che non vuol essere la trasposizione teatrale dei Promessi sposi, bensì un “attraversamento” del romanzo, uno studio che segua le tracce del curato lungo tutto l’articolarsi della vicenda manzoniana e proponga un’inedita prospettiva d’indagine del capolavoro della nostra letteratura ottocentesca. Il teatro sarà utile a chiarire aspetti inediti dell’opera originale, non solo calando in un corpo vivo e reale un personaggio di fantasia, ma anche riunendo in un unico spettacolo i frammenti dell’“epopea” di don Abbondio, dal viottolo in cui incontra i bravi, fino alla chiesa dove sposerà Renzo e Lucia. La drammaturgia punta a reperire e ricostruire una vera e propria commedia nel romanzo: quella che ha per protagonista assoluto l’eroe “comico” per eccellenza dell’intera trama. Don Abbondio è, per il De Sanctis, l’«eroe della paura». La paura in lui è naturale come abitare nel proprio corpo e, anzi, è dal corpo che gli si genera, ovvero dall’autoconservazione: quel «tenersi cara la pelle» che è l’adagio mai smesso dal curato, masticato fra le orazioni, dette certo con convinzione assai men fonda. Ossessività, pensieri ricorrenti – incubi addirittura –, timori opprimenti, sono il fulcro della miserabile parabola umana d’un personaggio che è comico suo malgrado, e lo risulta tanto più quanto più soffre a causa delle proprie ansie. Nulla, in questo senso, di più molièriano, e dunque di più teatrale e grottesco insieme. E don Abbondio lo è, grottesco, pur nella sua commovente umanità, fatta di opportunismo e piccoli raggiri, di affezione al suo modesto ordine da sacrestia, di rituali letture serali di filosofi dimenticati (da lui, almeno, senza dubbio: «Carneade! Chi era costui?»). Quando il personaggio è privo d’angosce, del resto (è sempre De Sanctis) perde la sua «linfa umoristica»: resta solo l’ometto, il sacco vuoto, la tonaca che spazza la strada rincasando «bel bello», come in una cartolina sbiadita che racconta non solo e non tanto il Seicento, ma ogni stradetta ed ogni curato di campagna, nelle convalli padane, fin forse agli anni Sessanta (almeno) del secolo passato. Manzoni ha riempito quella tonaca con un signore attempato, crucciato da ogni cosa, felice mai di niente, cui sgrava i nervi il brontolare molto (grazie al canale privilegiato di Perpetua, suo complemento e alleato discorsivo e non solo), che si fa strumento del sopruso per pusillanimità: quel “quieto vivere” così caro al Bel Paese che diventava sempre più spesso – nei resoconti dei grandi viaggiatori ottocenteschi esteri e nostrani – un tratto distintivo dell’Italiano, indolente, furbo per necessità, pavido per vocazione. È certo però che se don Abbondio incarna uno stereotipo (in via di formazione), egli se ne distanzia anche, per la dovizia di dettagli umanissimi di cui lo dota il suo inventore. Piccino e cordiale al tempo stesso, come l’esistenza composto «di obbedienze e incertezze» (Di Salvo), il curato è il primo protagonista che il romanzo presenta: meschino e repulsivo, a tratti, comprensibile e quasi scusato (o scusabile) altrove, osservato da Manzoni con quella «pietà spietata» di cui parla Pirandello, egli è il sommo “caratterista” della “commedia umana” di cui Manzoni è drammaturgo e la Provvidenza regista prudente.