MANDRAGOLA

di Machiavelli | regia Luca Micheletti


"Quanto allo atto che sia peccato, questa è una favola: perché è l'anima che pecca, non el corpo…"

MANDRAGOLA

di Niccolò Machiavelli
regia Luca Micheletti

con Adolfo Micheletti Nicia 
e con (in o. a.)
Fabrizio Ballini Siro 
Marianna Chiaramonte Lucrezia 
Andrea Manni Callimaco 
Roberto Savoldi Timoteo / Prologo
Valter Schiavone Ligurio 

spazio e costumi Luca Micheletti
luci e suono Stefano Bonetti
musiche originali Roberto Bindoni
assistente alla regia Claudia Scaravonati
realizzazione costumi Alessandra Bini
foto di scena Francesca Danzini

produzione Compagnia teatrale I GUITTI

«Quanto allo atto che sia peccato, questo è una favola». Così fra Timoteo a Lucrezia tentennante di fronte alla risoluzione da prendersi: concedersi o no al capriccio del marito Nicia che, per renderla feconda, vuol farle bere una pozione di mandragola? L’erba, si dice, ha virtù concezionali, ma chi giace per primo con la donna che se n’è giovata andrà incontro a morte quasi certa. Nicia vuol dunque dare sua moglie ad un altro uomo, per una notte sola, cosicché la mondi del maleficio e la renda sé, pronta per figliare. Il malcapitato «garzonaccio» preso all’uopo morirà, ma tant’è, Nicia non si fa scrupoli perché non sta nella pelle all’idea di avere prole. Naturalmente, la mandragola non ha alcun potere, e tutta la commedia altro non è che una beffa ai danni del credulo Nicia: l’escogitano Ligurio e Callimaco, il quale ultimo, innamorato di Lucrezia, fa di tutto per vestire i panni del «garzonaccio» e coronare così la propria passione. Per convincere la donna, si servono di Timoteo, «un frate mal vissuto» (così avverte il Prologo), che si spende – corrotto da un obolo – perché la donna assecondi il maneggio del marito: solo in seguito verrà svelato a Lucrezia che ciò che ella crede opera di Nicia è in realtà una trama di Ligurio, scaltro parassita, in cui lo stesso Nicia è coinvolto come vittima. «Quanto allo atto che sia peccato, questo è una favola». Così Timoteo, dunque, all’incerta Lucrezia. Questa è però – pare evidente – anche un’asserzione dello stesso Machiavelli, che chiarisce l’argomento della sua commedia, giusto al centro di essa. Si tratta di una «favola», ossia di una menzogna (ma anche una “commedia”: fabula, appunto) che riguarda l’«atto» peccaminoso; e, inoltre, l’«atto che sia peccato», dice il frate, «è una favola» – assunto che malcelatamente rivela più d’un compiacimento: una vera e propria tentazione: “l’atto del peccato è una favola”. O, il che è lo stesso, “materia buona per farci una commedia”. E in effetti la Mandragola è la più compiuta, più famosa, più buffa e più imitata commedia del Rinascimento. Questa ineguagliata stagione della nostra cultura si è nutrita di teatro come nessun’altra. Machiavelli, nel secondo decennio del Cinquecento, fissa i canoni del teatro del secolo, assolutizza i modelli di riferimento, compie un esercizio letterario la cui fattura è tanto elegante – nell’intarsio mirabile di temi e restituzioni stilistiche, di umanesimo e patrimonio popolare – da risultare perfetta. La Mandragola è dunque la “commedia perfetta”, inestimabile viatico per ogni “introduzione al teatro” e indimenticabile classico della nostra letteratura a cui guardare come in un cannocchiale che sveli le trame gaie e losche del capitolo modernità – tra principi e profittatori, donne di spirito e frati amorali, comici avvocati e travestimenti politici – entro il “grande libro” della cultura occidentale, di cui Firenze, oltre che ambientazione elettiva, è metafora ideale.


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