LA ROBA E NEDDA

da Giovanni Verga | regia Nadia Buizza


"Le comari la chiamavano sfacciata, poiché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata."

LA ROBA E NEDDA

dalle novelle di Giovanni Verga
regia e drammaturgia Nadia Buizza

con (in o.a.) Diego Baldoin
Alessandro Balducci
Tiberio Ghitti
Stefano Micheletti
Floriano Negri
Laura Palmeri
Angelica Prezioso


scene ideate e realizzate da Giacomo Andrico
costumi Alessandra Bini
contributi audio Nadia Buizza, Luca Micheletti
foto di scena Francesca Danzini

produzione Compagnia teatrale I GUITTI / Teatro Viaggiante

Espressione della maturità di Giovanni Verga, le novelle scandiscono anche i momenti fondamentali della sua evoluzione artistica. Esse contrappuntano infatti la produzione di maggior mole: a volte anticipazione e banco di prova stilistico, a volte variante e sviluppo di temi contenuti nei romanzi. Quando apparve Nedda (1874) si ebbe subito la sensazione di un’importante svolta letteraria; secondo Capuana, Verga aveva trovato «un nuovo filone nella miniera quasi intatta del romanzo italiano». E indubbiamente essa segna l’abbandono dei modi romantici e decadenti della giovinezza, e l’inizio della cosiddetta conversione al verismo. La protagonista è un’umile contadina, la narrazione di fatti e azioni sostituisce l’analisi psicologica e il dramma interiore, la voce narrante è interna al mondo descritto, dominano il dialogo diretto e il recupero della Sicilia come paesaggio ideale. Se con Vita dei campi (1880) Verga prende deciso possesso del suo più autentico mondo poetico che sarà quello appartenente alla stessa stagione artistica de I Malavoglia, con le Novelle rusticane (1883), concepite come continuazione della precedente raccolta, si apre la linea di ricerca stilistica che porterà invece a Mastro-don Gesualdo. In entrambe le raccolte, comunque, personaggi calati in un ambiente definito con scrupolo realistico soffrono la lotta per la vita: ed è questa “comune vicenda di dolore” che ne fa delle figure “corali”, presenti, del resto, col loro mondo di “storie vere” e di passioni elementari, in tutte le opere maggiori di Verga. Le novelle da cui è tratto lo spettacolo sono quattro: alle novelle La roba e Nedda, che fanno da colonna portante, si intrecciano teatralmente e in misura minore le vicende di Pane nero e Il mistero. Tre di esse appartengono alla raccolta Novelle rusticane e una, Nedda, a Vita dei campi, in cui però fu inserita solo nell’edizione Treves del 1897. Tutte sono immerse in un mondo dai confini precisi; le case, le strade di Paternò, di Francofonte, di Vizzini e degli altri luoghi verghiani fanno tutt’uno con i sentimenti che vi si agitano: gelosia, avidità, attaccamento alla famiglia e alla terra, religiosità elementare o superstiziosa che non dà alcun sollievo spirituale o morale, senso dell’onore, rassegnazione di fronte agli eventi. In tutte, Verga osserva con grande intensità uomini curvi da sempre sotto il peso di un destino implacabile di miseria e malattia, còlti nella pena del loro vivere quotidiano, uomini “vinti”, condannati al dolore e alla morte; e questo pessimismo radicale e dolente dell’autore raggela le speranze e le vicende dei protagonisti in una specie di desolata – quasi mitica – fissità. La loro ansia di vivere si esprime poche volte, magari nell’impeto amoroso di una giovinezza come quella di Nedda, impeto per altro subito sprezzato dagli eventi, o magari nel desiderio di “possedere”, di costruirsi, con lavoro tenace, una fortuna, nel tentativo – sempre vano – di dominare questa vita. Mazzarò è sopraffatto dalla rapace e affannosa bramosia della “roba” (anticipazione chiara della figura di Mastro-don Gesualdo, con la quale questo tema assurgerà a “mito”), ma neppure lui può sfuggire alla pena di una solitudine irreparabile e al meccanismo di una natura – o “fortuna”, o “provvidenza” – che distribuisce ciecamente vita e morte, e nega ogni possibilità di riscatto umano o sociale. L’unico valore che resta è la dignità umile ed “eroica” con cui l’uomo sopporta il suo destino: senza vane ribellioni e senza viltà; “attaccato” – lo dice Verga in Fantasticheria – «come un’ostrica allo scoglio su cui la fortuna lo ha lasciato cadere», sempre desideroso altrimenti di tornare, caparbiamente, all’oasi del focolare domestico, dove può stringersi ai suoi affetti e resistere alle tempeste della vita «solo pregando Dio di chiudere gli occhi là dove li ha aperti». Il sentimento tragico del destino umano, il fatalismo che non consente – come invece in Manzoni – il riscatto degli umili, è scandito dalle visioni di una terra desolata e arsa, di campi gravati dal peso delle fatiche contadine, di «annate lunghe in cui la fame comincia a giugno» e dallo spettro della malaria; è la “mesta cantilena siciliana”, chiusa e rassegnata, intimamente percorsa da un dolore antico quanto l’uomo. Cardine della nuova concezione veristica di Verga è l’individuazione di un “punto di vista” che consenta al narratore di calarsi nei fatti e quasi scomparire, lasciando che questi si producano da sé come per una necessità naturale, cancellando la mano dell’autore, secondo i canoni della “impersonalità”. Evitando di dar voce alle proprie reazioni etiche, ideologiche, affettive, lo scrittore persegue l’obiettivo di orchestrare la materia sull’intonazione di una voce narrante, ritmata su una cadenza locale immune da compiacimenti dialettali e su una sintassi che restituisca l’elementarità e talora la sentenziosa proverbialità del parlato.
L’adattamento teatrale ha seguito l’andamento narrativo, conservando i suoi imperfetti (che suggeriscono azioni mai finite e destinate a ripetersi per l’eternità), dando voce alle frasi verghiane, corte e pregnanti, che fanno un uso parchissimo di colore locale, dosando parole che sono concrete come gesti e lasciando “parlare” pienamente anche i silenzi scabri dei protagonisti. Questi pastori e contadini infatti «parlano poco, ma i loro pensieri nascono formidabili… essi si narrano da sé, anzi sono narrati dalle cose stesse» (Garrone), con grande spontaneità e dolorosa intensità.


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