di Molière | regia Luca Micheletti
"Ma che diavolo c'è andato a fare, lui, in quella galera?"
Le furberie di Scapino è la farsa più tarda che il genio francese scrisse. Inscenare "maschere", senza specificazione ulteriore, significherebbe dare all'opera la dignità di un canovaccio. Ma Molière non intende scrivere un mero canovaccio; egli stende un’opera, un anno prima di morire, che sia un omaggio a tutto il suo teatro e a se stesso, una presa in giro benevola e scherzosa dei temi maggiori utilizzati nelle sue commedie più grandi, un elogio buffonesco a quel mondo di “furberia”, appunto, che tanto spiò e ammirò in gioventù nei comici italiani e che seppe reimpastare all’interno di una polemica sociale tutta francese. Le maschere non saranno che gli esecutori di questo encomio a Molière. Dal gran guazzabuglio di caricature grossolane, di frizzi e acrobazie, di cui si popola la scienza teatrale popolare del XVII secolo, Molière seleziona, per scrivere le Furberie, quelli che più lo colpiscono, quelli che ricorda di aver già usato o già amato nel suo teatro e crea un mondo non del tutto francese e non del tutto italiano, bensì un universo oleografico, senza collocazione geografica precisa: una Napoli esotica e crepuscolare, popolata di galere turche, tribù gitane e mandolini... La maschera di Scapino è al centro del gioco scenico: se la canta e se la suona. Scapino fu del resto musicista e cantore inimitabile in tutte le tradizioni, forse a causa di quel Francesco Gabrielli, fra i suoi primi interpreti tra Cinque e Seicento, che fu versatile compositore e inventore di strumenti musicali. Senza trasformare la farsa in musicommedia, Le furberie di Scapino è attraversata da ritmi e “tammuriate”: come si trattasse della tarantolata traduzione musicale del ridere organico.