di Henrik Ibsen | regia Luca Micheletti
"Io volevo prender parte al movimento dei tempi. Vivere nello spirito delle nuove idee…"
Rosmersholm è il dramma dell’inazione, del presente svuotato, dei fantasmi che vincono sui viventi. È luogo dell’anima e castello dei destini incrociati.
È un horror in forma di seduta psicanalitica: forse il più palpitante “copione del terrore” uscito dalla penna di Ibsen.
Rebekka West (futuro oggetto dello studio di Freud e di Groddeck), donna nascostamente passionale e libera pensatrice apparente, prende servizio a casa del pastore Rosmer, espressione e vittima al contempo di un ordine aristocratico chiuso in se stesso, governato da ferree leggi morali e forse addirittura soprannaturali: “i bambini a Rosmersholm non ridono mai…”.
A partire dal contrasto tra queste due Weltanschauungen – che includono dialettiche spirituali, politiche, carnali – si sviluppa il desiderio che unisce i due protagonisti. Proibito e rimosso, questo desiderio condurrà a conseguenze nefaste, tra cui la più concreta e al tempo stesso simbolica è il suicidio di Beata, la moglie di Rosmer, che indotta a sospettare l’anelito del marito a una vita diversa, si getta nella gora del mulino.
Rosmersholm inaugura un percorso Ibsen che, in collaborazione col Teatro Franco Parenti e il CTB Centro Teatrale Bresciano, culminerà nell'allestimento di Peer Gynt (Suite). Se nel giovane Ibsen la lotta per la ricerca di se stessi prende la forma esplicita di una cruda fantasia iniziatica e soprannaturale, un dramma della maturità come Rosmersholm inietta l’astrazione sottopelle, la confina nei sogni, anzi negli incubi di Rebekka e Rosmer: incarnazioni simboliche di due estremi opposti che finiscono per confondersi e annientarsi.
Massimo Castri sintetizzò: “uno scontro tra due astrazioni che non tien conto del concreto storico (il capitalismo che produce da un lato repressione istintuale e dall'altro ideologia). Tra due astratti non può esserci dialettica. Non possono produrre che morte; e la loro tragedia è tale solo fino a un certo punto, è tragicommedia”. Fu proprio Castri a concepire questa "tragicommedia” come un dispositivo teatrale in forma di monodramma a due voci. Scegliamo di far rivivere il suo copione, rianimando il mostro bicefalo che ha immaginato ormai decenni fa, in un nuovo ring senza esclusione di colpi che è anche una camera di tortura delle parole, alla ricerca impossibile di quella verità che al teatro è negata per statuto, da sempre e per sempre.
Nessuno, nel dramma, può rispondere alla domanda su quale sia la verità, in effetti. Per Groddeck, Rebekka finge quando confessa di avere una responsabilità diretta sul suicidio di Beata, e lo fa col solo intento di liberare Rosmer dai suoi sensi di colpa. Per Freud, invece, lei dice la verità, e proprio il manifestarsi dello schema edipico che ella ha rimosso (la desiderata eliminazione della moglie dell’amato padre/padrone), la precipiterebbe in un mondo di ombra, nella paranoia, in un cuore di tenebra spettrale senza via d’uscita.
D’altra parte, al di là di ciò che la psicoanalisi ha voluto vedere nel testo a posteriori, Rosmersholm è principalmente una moderna tragedia sul fallimento politico che si tramuta in fallimento esistenziale. Di fatto, il Macbeth di Ibsen. Che gli amanti avessero o meno desiderio e contezza di eliminare Beata (incarnazione di un trascorso, di un ordine del mondo precedente a quello attuale, e dunque vero e proprio analogo di “re Duncan”, guida spirituale e sovrano di un regno perduto), che essi abbiano o meno maturato la consapevolezza delle loro pulsioni rivoluzionarie e “regicide”, all’atto pratico non reggono lo scacco tra il volere e il potere. Quando i protagonisti vedono realizzato ciò che (forse) hanno voluto, non lo vogliono più; o non possono più volerlo, precipitando in una spirale d’angoscia soffocante e sanguinaria che li porterà all’autodistruzione.
Castri ebbe l’intuizione di mettere un focus sui protagonisti, tagliando gli altri ruoli, e trasponendo l’ambientazione borghese in una sorta di doppia cameretta manicomiale in cui le ossessioni di Rosmer e Rebekka prendevano vita e voce (grazie all’uso di radio fuori epoca e fuori dal mondo in cui venivano trasmessi frammenti del dramma che non sarebbero stati rappresentati). Recuperando il suo copione a due voci ho però agito con tutt’altro taglio, pur senza del tutto dimenticare i suoi avvertimenti sull’Ibsen più ironico e metateatrale. Qui, per me, la poetica del frammento che guida la rielaborazione drammaturgica non è strumento di osservazione critica strutturalista, bensì occasione d’indagine inconscia, flusso di coscienza che esprime tormentosamente la dialettica fra istinto e ragione, tensioni apollinee e palpitazioni dionisiache.
Questi due innamorati terribili sono qualcosa di più di semplici astrazioni ideologiche e divengono espressione di tante cose: dell’ingombro che l’io costituisce ai fini d’una salda prospettiva etica, dell’incolmabile abisso tra desiderio ed atto, della relatività della punizione e dell’espiazione, della tragicomica inutilità del sacrificio in assenza di dei (e dunque della perturbante impossibilità del “tragico” nel contemporaneo)…
Ho scelto di mettere il copione sottosopra, di partire dalla fine della storia, dai cadaveri che immagino ripescati dall’infausta gora del mulino in cui si è concluso il loro destino; i morti si destano, poi, e ricapitolano sotto forma di ossessionante gioco (al massacro) teatrale e, al contempo, di processo (alle intenzioni) da loro stessi celebrato, gli attimi salienti della loro dannazione terrena.
Non più due camerette, ma una sola camera (ardente), che è anche girone infernale, limbo a porte chiuse della relatività, il luogo eterno di un supplizio che si sconta con la paralisi, contrappasso di quella stessa paralisi che in vita impedì l’emancipazione dai propri privati tormenti in funzione d’una missione sociale e spirituale per la salvezza dell’uomo.
Il grande sogno politico si scontrò col senso di colpa dell’io e la grande opera rivoluzionaria ne fu impedita. È questo il grande tema di Rosmersholm, non è soltanto una storia d’amore contrastato, ovviamente, ma è la storia dell’amore per l’umanità contrastato: una misteriosa e gotica inchiesta sul delitto e sul castigo, al ritmo di marcia funebre.
La radio non trasmette le scene escluse, ma bagliori di coscienza, dialoghi di cui poco alla volta si intuisce il senso e il peso, indizi e trappole per una giuria che si confonde col pubblico stesso.
Così, “Il gioco della confessione”, titolo che nel copione originario rubricava la sola scena della ambigua dichiarazione di colpevolezza di Rebekka, diviene adesso sottotitolo dell’intera pièce: un gioco (teatrale e non solo) in cui confessare significa mistificare la realtà, tentare invano di ricostruirla a parole e parzialmente, guardandosi indietro, tentando di vedersi con gli occhi e nei panni del rivale, ingannando, spergiurando, fingendo… nel sogno vano d’essere esistiti con uno scopo.