BIZARRE GHELDERODE
I ciechi | Il Cavalier Bizzarro

di MIchel de Ghelderode | regia Luca Micheletti


"Questa umanità che si scompagina, ma che resta forte di colore e ricca d'odore, avrebbe tentato il pennello del Breughel dei mendicanti o il bulino di Jacques Callot…"
Michel de Ghelderode

BIZARRE GHELDERODE
I ciechi | Il Cavalier Bizzarro

Studio per una Sinfonia dell'Aldilà

traduzione Gianni Nicoletti e Flaviarosa Rossini
video Carlo Bergonzi
arpa celtica Vera Calchi
regia Luca Micheletti

I CIECHI
Parabola in un atto tratta da Breughel il Vecchio


personaggi e interpreti
De Witte  Diego Baldoin
De Strop  Stefano Macchi
Den Os  Adolfo Micheletti
Lamprido  Alberto Sarnico
Roma  Claudia Scaravonati

IL CAVALIER BIZZARRO [BIZARRE]
pochade in un atto

personaggi e interpreti
La Vedetta  Adolfo Micheletti
I Vecchi  Diego Baldoin, Stefano Macchi, Alberto Sarnico
Il chirurgo  Alberto Sarnico
La morta  Claudia Scaravonati

produzione Compagnia Teatrale I GUITTI

 

I ciechi e Il cavalier Bizzarro – presentati in quest’ordine, che sovverte quello cronologico in cui sono stati scritti – sono due atti unici strettamente legati l’uno all’altro, in particolare dal tema della vista e delle sue implicazioni metaforiche. La vista come forma di conoscenza (pre-veggenza), da un lato, e come forma di inganno (in quanto ingannevole è il senso e soggetto all’opinione), dall’altro. Se, dunque, I ciechi sono parsi immediatamente espressione della poetica della preveggenza – con i protagonisti legati al mondo degli indovini e degli accattoni, così vicino all’universo dei tarocchi, al tenore mantico di certa poesia di ispirazione surrealista e barbara, dove la figura di Lamprido, guercio Zarathustra, evoca chiaramente la divaricazione tra gli ottenebrati votati alla morte per ignoranza e i superiori, i ‘monocoli scelti’ di un mondo mostruoso che chiede di essere visto fino in fondo – Il cavalier Bizzarro sembra invece un apologo escheriano sull’inganno della vista, completamente immerso nella superstizione abbacinata di una Vedetta e dei suoi compari di vedute, che fino all’ultimo sbagliano pre-visione, sbattuti con brutalità in faccia ad un destino in-visibile, imperscrutabile e straziante, tanto più tale in quanto li risparmia, rendendo loro ancora più impossibile la conoscenza dell’ignoto e del buio.

Nel primo atto, dunque, dedicato alla ‘visione’ ricercata con spasmo ed esaltazione, con fervore religioso e ottusità bigotta, si consuma la parabola (meglio sarebbe dire il girotondo) dei tre ciechi dalla nascita, in cammino verso Roma. La loro marcia consta di un giro su loro stessi che ricorda il cerchio ripetitore di Borda (che ripete e moltiplica gli angoli all’infinito, come in una cartografia dell’impossibile). Il loro legame nella vita e nella morte, rappresentato dal tenersi l’un l’altro alla falda del mantello del compagno, o stabilendo con lui un contatto attraverso il bastone o la mano – come nel dipinto ispiratore di Breughel – genera un intrico di arti e lacci, gliommero della cecità e dell’inazione, scrutato con supponente condiscendenza e solidarietà sorniona da un guercio super partes. I ciechi arrivano a picchiarsi l’un con l’altro, menandosi reciprocamente forti e inconsapevoli colpi, ricordando che l’uomo, anche laddove prostrato fisicamente e ad un passo dal peggio, tende a incrementare il disordine del mondo, compiendo il male per il male, il male assoluto: un’immagine di vivida ferocia, i cui contorni sono indelebilmente legati al Duelo a garrotazos di Goya, al Museo del Prado, in cui due esseri, sprofondanti nel fango, non smettono la loro lotta fatta di bastonate.
“Tragico equivoco”, come commenta Lamprido, come quello che lo conduce alla “vanità imperdonabile” che è “volere il bene del prossimo”: egli si prova a comunicare con la cecità, con l’utilizzo che la tecnica e l’espediente gli hanno fornito. L’alfabeto Braille, ad esempio, del quale si serve come ‘planetario alternativo’ per schiarire il cammino a chi è cieco. Pure, i punti che traccia, costellazioni in rilievo inutili alla bisogna, restano una mappa illeggibile.

Quello di Lamprido è un albero della cuccagna, ma anche una forca da cui egli pende, biascicando la ballata di tutti gli impiccati che, da Villon in avanti, si provano ad avvertire gli uomini di guardare lontano non soltanto una volta appesi per il collo.
Il suo è un albero-di-natale, anche, dalle mille lucine, che si provano ad ‘accendere’ un lume di ragione nei viandanti che inseguono una cometa buia. Ma esso, l’albero, simbolo pagano di ricerca spirituale ed elevazione morale, è ormai brutalizzato dalla superficialità e dalla mancanza di senno, ridotto ad insegna raccapricciante di una luce fallace e ‘intermittente’.

I ciechi finiscono per sprofondare in un fossato che loro stessi hanno creato con la consunzione del terreno sul quale hanno troppo a lungo girato in tondo. E nella lenta deriva, fra i rantoli che si spengono, si spengono anche le luci sulla farsa tragica delle bastonate e si accendono quelle asettiche e crudeli di una videoconferenza sul tema degli interventi palliativi per i non vedenti, cui assiste ottusa e indolente una serie di pazienti fiaccati da un’ennesima, inutile, kubrickiana “cura Ludovico”.

Séguito e sviluppo della ‘visione impossibile’, per coloro che sono già convinti di vedere, è la pochade del Cavalier Bizzarro, ambientata nel “vecchio ospedale” dal quale venivano riprese, alla fine dell’atto precedente, le scene crude degli interventi chirurgici agli occhi che chiudevano la videoconferenza del ‘dottor’ Lamprido. I “sepolcri” e i letti da clinica della didascalia trovano il loro pendant scenico-metaforico nella terra che copre il terreno, la quale dona alla struttura in disfacimento l’aria di un ossario popolato da maschere intricate di peli e capelli, “i Vecchi, tutti disgraziati, asmatici, catarrosi, sciancati…”, cui sono risparmiati dal lordo groviglio proprio gli occhi, grandi, sbarrati, dei molti colori dell’iride. Ogni altro senso è sottomesso alla vista, quella vista di cui fa un emblema il membro leader della disgraziata compagine, la Vedetta, per l’appunto. Il suono delle campane, basso continuo e valvola motrice di questo ‘thriller visionario’, è avvertito dai protagonisti attraverso la forsennata lettura di uno spartito musicale, un laudario sconsacrato come la chiesa-ospedale nella quale tutti si trovano, così simile nell’apparenza ad una partitura di Braille, con i suoi puntini significanti, ridotto a sterile cartella clinica di una monopatologia: quella che rielabora sottoforma di angustiante ‘visione’ anche uno stimolo di ordine acustico. I rintocchi, le danze, l’odore di zolfo, gli inni alla lussuria e al degrado ‘peccaminoso’ sono altrettante allucinazioni, fruibili attraverso il mondo degli occhi, l’unico che tiene viva un’umanità scompaginata che prova a resistere alla Morte, che gli occhi non li ha. Pure, la Vedetta, che si trova a dover annunciare l’arrivo del bizzarro Cavaliere, lo scruta nel muro, immergendo in esso la testa, che ne viene come risucchiata, a scrutare un loculo fantasma, privo di luce, in-visibile.

Tanto fallace la visione, tanto ‘murati’ gli occhi di chi si pone a vedetta dell’imperscrutabile – e il vecchio a guida della muta danza di morte, suonerà un muto pianoforte, novello Ray Charles di cieche ballate macabre – che i vecchi, nella cacopsìa ‘cubista’ dei loro sguardi stravolti, non hanno visto che i loro letti sono culle, tanto vicine alla terra come un occhio all’altro: l’incrementare del suono delle campane è in realtà corrisposto ad uno schiarimento sempre più forte della sala d’attesa della morte, tanto che solo nel finale le “rigide marionette” che i vecchi sono diventati vengono illuminate da un’alba atomica ‘assordante’. La Morte coglie là dove non si crede, e si porta via un neonato invece di un pluricentenario: ma la differenza non c’è, chi muore è pur sempre uno dei vecchi-bambini che popolano l’ospedale dell’esistenza. Le culle si ribaltano e da esse precipita, ancora, leopardianamente, la terra.

Unico accompagnamento acustico di questa sinfonia della (non-)visione, il suono dal vivo di un’arpa, contrappunto insinuante ad un’elegia funebre, strumento nobile e barbaro, scintillante diapason per una sinfonia dell’aldilà.

Come è possibile un racconto iconico che si appoggi al mezzo del teatro per portare a luce il grumo allegorico che De Ghelderode presenta nella forma di una pochade e di una ‘parabola’? Come sfruttare il tema della superstizione, modificandone il significato canonico legato all’esoterico-morale, con il proporsi l’indagine di una superstizione del vedere? Risulta palese il gradiente di metateatralità della riflessione: per una forma particolare di superstizione – da Artaud in poi molto meno innocua di quanto in passato si è creduto – il teatro stesso induce a ‘credere di vedere’ o ad ‘impedirsi di vedere’, con l’adesione ad un sistema di metafore che, sul palcoscenico, invece di sciogliere i loro significati, li corrodono indelebilmente dando vita ad una nuova alchemica sostanza cui è difficile dare un nome.

Luca Micheletti


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