di Ruzante | regia Luca Micheletti
"Puoca botta amaza un omo."
Tre Dialoghi di Ruzante
regia Luca Micheletti
con
Luca Micheletti Menego / Ruzante / Bilora
Diana Manea Gnua / Dina
Emilio Zanetti / Adolfo Micheletti Duozzo / Cardinale / Andronico
Gabriele Ciavarra / Alessandro Balducci Nale / Menato / Pitaro
Andrea Troianiello Un bravo / Zane
Mirko Lanfredini Tonin
e con
Clotilde Jole Bernardini (viola da gamba)
Andrea Belleri (sax contralto)
scene e costumi Luca Micheletti
luci Sergio Martinelli
musiche G.F. Haendel, J. Schenk, D. Ortiz, T. Hume, S. Ganassi, B. Hely, O. Vecchi
assistenti alla regia Diana Manea, Andrea Troianiello
produzione Compagnia Teatrale I GUITTI
I Tre Dialoghi del Ruzante sono la sintesi più compiuta del teatro rinascimentale "irregolare". Brevi atti, farse dal gusto boccaccesco e scritte in un dialetto pavano che mima quasi senza filtri letterari l'oralità coeva delle classi incolte, folgoranti e brutali, sono tra le prove più imitate di tutta la tradizione comica occidentale.
Lo spettacolo li riunisce in una "maratona" che ha il merito di vedere affiancati i percorsi umani e scenici di tre disperati: Menego, cornuto e contento anche se vittima della carestia; Ruzante, reduce dal campo di battaglia e abbandonato dall'amante (le pagine forse più note in assoluto del Beolco); Bilora, facchino cui rapiscono la moglie, vilipeso dalla tracotanza d'un signorotto, che si vendica divenendo un assassino.
Osservando il “caso” di Ruzante si vedono venire alla ribalta delle scene veneziane le plebi contadine colte nella tragicità della guerra e poi protagoniste di un difficile e disperato tentativo di inurbamento: il corpo è il teatro universale delle loro miserie. Esso è smembrato, fatto a pezzi, ammalato, divorato, stuprato, notomizzato e squarciato, aperto e sconciato. Ruzante, sulle scene venete, apre la via ad una frequentazione della scena dell’organico il cui disturbante materialismo porta all’osservazione della carne come luogo della piaga, della sofferenza e del disordine. Il caos corporeo è specchio del caos sociale. Le classi più basse, lo sono anche in senso bachtiniano, più vicine alla terra, e dunque più lontane dal cielo. Le stesse gioie carnali sono consentite soltanto a tratti, ai più poveri, in fugaci accensioni che illuminano come un fuoco fatuo la fossa comune della miseria.
Il corpo del Ruzante è famelico, malato, ferito, sporco, disfatto, aggressivo e violento, picchiato, ridicolizzato, mangiato, e, ciononostante (anzi, proprio in ragione di tutto questo), sempre dominatore rispetto a ogni altra istanza. Anche il desiderio fisico è un oggetto di corrosione, il sesso è rapace e cruento, non c’è spazio per leggerezze e godimenti, per spensieratezze ed abbandoni, poiché si parla quasi sempre di sesso rubato, illecito, violatore.
Nel dominio assoluto del corpo distrutto e distruttore, l’anima non c’è, e quando c’è, è perché i personaggi si ritrovano in limine mortis, o meglio credono di esserlo, e dunque si rammentano dei propri peccati, raccomandandosi a Dio, come fa Menego nel Dialogo facetissimo, rassicurandolo e tentandone un convincimento, quasi da pari a pari, ove le giustificazioni del moribondo sul suo bisogno di «vivere» valgono assai più del suo pentimento per i peccati commessi: «O Domenedio, perdoname, che int’ogne muò a’ no farè mé pí male. A’ me confesso che a’ he robò, mo a’ ’l fiè per vivere». È la morale del “quello che è stato è stato” che guida l’estrema confessione di Menego: l’aver rubato, del resto, è peccato veniale, se l’essersene macchiati fu motivato dalle ragioni della vita (il sostentamento, evidentemente: il bisogno di riempire il corpo).
Beolco riesce, attraverso il plurilinguismo che l’ha reso celebre, a far anatomia della figura del villano, e lo fa appellandosi al principio della snaturalité, cardine elementare ed estremo ad un tempo del suo edificio poetico ed esistenziale, con il corpo che, una volta ancora, fa da pietra angolare. Lo «snaturale», oggetto estetico dalla natura ibrida – concezione del mondo e, insieme, stile poetico – strumento mordace ma mai sprezzante, riesce a mutare le codardie e le sue violente passioni, pulsioni ferine e brutalità etiche in materia di raffinata antropologia. È la generalizzazione, in sostanza, del principio espresso grossolanamente da Menego: «a’ he robò, mo a’ ’l fiè per vivere». Nelle ragioni della carne, e quindi nelle sue indomabili necessità, alberga la grande discolpa, la decisiva legittimazione degli atti estremi o illeciti degli uomini e delle donne.