di George Tabori | regia Luca Micheletti
"Se c'è qualcuno che deve tutto a Bach,
questi è proprio Dio."
Emil M. Cioran
Esito dell'importante collaborazione dei Guitti in residenza per l'anno 2016 al Teatro Franco Parenti di Milano, per la prima volta in Italia il testo-shock di Tabori che Ingmar Bergman diresse nel 1994. L'idea di partenza dice già molto: a Gerusalemme, un gruppo di teatranti dell'era post-atomica mette in scena la Bibbia. O meglio, ci prova, incarnando ostinatamente il comandamento di Beckett “fallire ancora, fallire sempre, fallire meglio”. La drammaturgia di Tabori – come sempre debitrice a Brecht, con un gusto spiccato per l’aforisma e il Wits ebraico – si fa carico qui di risalire alle origini dell’identità religiosa e morale dell’Occidente e di tradurre per la scena i rischi e i paradossi del “prendere alla lettera” il testo sacro e del servirsene come terreno di scontro ideologico. Con un taglio umoristico, feroce e spregiudicato, Tabori illumina contraddizioni millenarie che regolano i rapporti dell'uomo con le religioni, il suo rifiuto e il suo bisogno della fede e le vie per sfuggirle “interpretandola”: il risultato è un divertissement svelto e pirotecnico, colto e pop, scorretto politicamente almeno tanto quanto demistificante. Non teme di affrontare ferite aperte dell'oggi quali l'antisemitismo, la guerra di religione, il neonazimo, frequentando senza scrupoli i generi della farsa, della tragedia, del cabaret, dell’apologo, reinventando un “teatro della crudeltà” in salsa yiddish. Tabori sceglie il teatro come specchio del mondo (e come esilio perpetuo da esso): l'omaggio alla tradizionale metafora del theatrum mundi si fa occasione di riqualificare la scena come luogo del conflitto e del dibattito, della riflessione etico-estetica e della rivoluzione. La sua drammaturgia è un’estensione grottesca ed ipertrofica del doppio prologo (in Teatro e in Cielo) che Goethe antepone al suo grande opus, il Faust: qui, come là, abbiamo un direttore intemperante e in conflitto con se stesso (visto che al ruolo di regista affianca quello di drammaturgo) e un assistente/performer che verrà in soccorso alla rappresentazione con il letterale sacrificio del suo corpo in scena. Come in Goethe, anche qui, egli è un attore “faceto”, ovvero un comico, un clown del destino, incarnazione delle sorti dell’umanità, sempre in metamorfosi e soggetto agli scossoni d’un volere superiore e capriccioso (non affatto immutabile) in lotta con la responsabilità personale. Un clown metafisico che si chiama “Goldberg”, nome tanto comune da raccontare l’ebreo-tipo e di cui il titolo promette le variazioni su tema. Ma il titolo promette anche la musica, qui eletta a pratica sublime dell’inattingibile armonia universale: sembra che Tabori si sia ricordato di Cioran che disse un giorno: “se c'è qualcuno che deve tutto a Bach, questi è proprio Dio”.