scritto e diretto da Luca Micheletti
"Non ci siamo salvati perchè siamo i migliori, ma forse dovremmo esserlo perchè siamo salvi."
Piuro, comunità della Valchiavenna, riunita in un’associazione archeologica per la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico (l’Associazione Italo-Svizzera per gli Scavi di Piuro) nel 2008 incontra la Compagnia teatrale I Guitti e chiede a Luca Micheletti di scrivere un dramma sulla frana che colpì la valle nel 1618: un evento che portò Piuro e le terre limitrofe agli onori della cronaca di tutta Europa al tempo del disastro, vissuto dai sopravvissuti e dai cronisti come una vera e propria Apocalisse, una punizione divina per le colpe d’una società corrotta dedita al libero commercio mercantile e carnale. I primi studi sull’evento e l’occasione d’una messinscena voluta per commemorare ed onorare una società cancellata e tutta da reinventare hanno condotto alla stesura di Quando il sole non tornò. Repertori disparati, cronache seicentesche e allucinazioni più recenti hanno innervato un racconto teatrale intessuto di leggende riscoperte o inventate di sana pianta.
Quando il sole non tornò è pensato come un dramma a stazioni, violente e brevi: esse sono ordinate in un sibillino moto retrogrado che fa procedere à rebours la narrazione. Tutti i quadri della prima parte del dramma si chiudono con l’avvento della frana: ognuno di essi è la rappresentazione degli istanti prima del disastro vissuti dalle cinque diverse prospettive dei cinque unici sopravvissuti. I dialoghi e i monologhi si giustappongono in successione, ma tendono idealmente ad intrecciarsi e qualche spia lascia intendere che ognuna delle prime cinque stazioni debba pensarsi quasi esattamente sincronica alle altre: cinque spaccati di vita di cinque vite spaccate. L’ideale clessidra del tempo storico si ribalta vorticosamente, anch’essa come succube di venti sconvolgenti, di catastrofi palingentiche, di turbini annunciatori di sventura. Corpi reali e corpi fantasma si confrontano senza stupore.
È descritta un’umanità preda del disordine e del caos, che verso il caos suo malgrado precipita. L’orizzonte etico del dramma ha provato a tenersi fedele a due principi brechtiani: “la storia insegna a dubitare” e “la storia degli umili ha reso possibile la storia dei grandi, una medesima morte li ha còlti entrambi”. Le miserie umane, le ipocrisie e gli interessi materiali d’un piccolo borgo messo alla prova del cataclisma, di fronte al realizzarsi di leggende antiche e al timore del sacro naturale (la montagna), conducono ad uno scorato misticismo, ad un “cinismo magico” che elabora una morale per certi versi sorprendente: la divinità non premia i migliori salvandoli, ma induce i salvati a diventare migliori, proprio poiché salvi. Leggende di storia locale e fatti di cronaca sono intrecciati fino a confondersi con le vicende personali dei cinque soli sopravvissuti ad un’epica frana che, cambiando i connotati d’una valle cambia sia materialmente che simbolicamente la loro Weltanschauung.
Le umane vicende mutano col mutare dei paesaggi che le ospitano: orizzonte speculativo e paesaggistico s’uniscono in grumo etico. Il principio del fluire delle cose, anche a posteriori rispetto ad una devastazione, è venerabile in quanto dispositivo del cambiamento: messo di fronte al modificarsi del mondo, l’uomo rimedita sui propri compiti, in lotta con una divinità imperscrutabile che, quasi beffardamente, sommergendo centinaia di case d’innocenti, dalla rovina – com’è avvenuto davvero – salva solo un bordello. Estremo lascito per un’umanità cieca, la voluttuosa cecità della carne?